La fucina del Gigante Rosso: la crescita cinese, gli investimenti internazionali ed il ruolo dell’Italia

Influente quanto recente, vera e propria potenza sul piano economico, sociale e culturale mondiale, la Cina dell’ultimo ventennio ha compiuto passi da gigante: dall’industria pesante al terziario avanzato, dalla produzione alimentare alla scoperta e diffusione delle nuove tecnologie, il prodotto interno lordo della Repubblica Popolare Cinese cresce a vista d’occhio, facendo di conseguenza aumentare sempre più la domanda di materie prime e semilavorati, energia e metalli necessari al proprio sviluppo. Il mercato interno, ormai da tempo, non è più sufficiente a soddisfare il crescente fabbisogno di materie prime; conveniente e necessario dunque per la Cina rivolgersi alle economie straniere.  Una vera e propria fucina, insomma, alla costante ricerca di beni e prodotti da impiegare nella propria produzione di ricchezza. Potenza planetaria, l’economia cinese è oggi in grado di condizionare l’andamento dei mercati internazionali, ed i suoi investimenti all’estero procurano ai Paesi destinatari ingenti, se non fondamentali, introiti. Basti pensare come i capitali cinesi investiti all’estero, in soli sette anni – dal 2005 al 2011- abbiano raggiunto quota 309 miliardi di dollari. E qual è il ruolo dell’Italia in tutto questo? Purtroppo, allo stato attuale, decisamente marginale. Dei 309 miliardi investiti sopra menzionati, solo 250 milioni sono stati spesi in Italia, in particolare nel settore edilizio (fonti: Ansa e Confindustria). Le cause principali della mancata stipula di contratti italo-cinesi sono senza dubbio l’eccessiva lentezza, macchinosità e complessità del nostro apparato amministrativo e burocratico, gli alti costi di approvvigionamento delle materie e dei beni di consumo, una delle pressioni fiscali più alte in tutta Europa nonché l’elevato costo del lavoro. Finché la nostra situazione interna non cambierà, sarà impossibile attirare dall’estero altro capitale. Tutti questi fattori infatti, presi congiuntamente in considerazione, impediscono al nostro Paese di rivestire il ruolo di potenziale meta speculativa. In definitiva l’Asia rimane il mercato maggiormente ambito (essa detiene circa il 40% del totale degli investimenti cinesi), seguita da Africa (circa il 30%) ed America Latina (poco meno del 20%). Si osservi come, in ambito europeo, tra i Paesi maggiormente sviluppati, solo l’Italia pare essere rimasta tuttavia immune da tale impiego di risorse. La mole di capitale cinese investito nel nostro Paese risulterebbe dunque più percepito che reale: tutta un’illusione la “colonizzazione” cinese in Italia. Infatti, soltanto uno sui centoventiquattro contratti siglati negli ultimi tempi dal colosso cinese è stato firmato con un’impresa italiana. Per ora, quindi, ad essere attratti dalla nostra economia sono per lo più i grandi gruppi statali cinesi, che seguono la necessità della Repubblica Popolare di diversificare i propri investimenti in quanti più Stati ed in quanti più settori possibili. Le uniche imprese, quelle a partecipazione pubblica, che hanno modo di ammortizzare le spese di trasporto e di contenere costi diversi: operazione impossibile per le comuni aziende private. Tale situazione spiega come mai la quasi totalità delle imprese private cinesi attualmente operanti in Italia sono per lo più gestite da manodopera cinese a basso costo e tutte orientate al confezionamento ed alla successiva esportazione in Cina del prodotto “made in Italy”.

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